Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività
Circa il 4% della popolazione pediatrica è affetta dalla
“Sindrome da deficit di attenzione e iperattività”
Che cosa è l’ADHD, il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività
L’ADHD ovvero il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, si manifesta in alcuni bambini che troviamo alle feste dei nostri figli, nei bus o sul treno, nelle scuole o per la strada e che si mostrano continuamente agitati, in continuo movimento, che non riescono a stare mai fermi, che si dimenano continuamente e che i genitori trovano grande difficoltà a tenere “buoni”.
Quando, poi, iniziano a frequentare la scuola sono quei bambini che le insegnanti non vorrebbero mai tenere: si alzano continuamente dal loro posto, danno fastidio ai compagni, non riescono a svolgere i compiti assegnati e finiscono spesso per cambiare banco, classe e talvolta … scuola. Il loro profitto scolastico proprio per la ridotta capacità di concentrazione è spesso scarso o comunque sufficiente e difficile è il loro rapporto con i coetanei, ma anche con gli adulti per la grande impulsività.
La loro difficoltà viene percepita dai genitori e dagli insegnanti ma spesso, nel nostro paese, la diagnosi viene completamente misconosciuta.
In realtà questi bambini non hanno nessuna colpa, né tanto meno i loro genitori che invece vengono spesso additati come incapaci a svolgere bene il proprio ruolo di educatori. Se il bambino risponde ad una serie di criteri clinici ben definiti dal mondo scientifico la loro è una vera patologia organica e come tale meritevole di una precisa terapia.
Solo con l’ausilio di una giusta terapia i bambini cambieranno radicalmente il loro modo di vivere e tutti, genitori, insegnati, compagni ma soprattutto il bambino, potranno finalmente cogliere la bellezza di una vita “normale”.
Il bambino iperattivo con deficit di attenzione
“Davide ha 8 anni fa la terza elementare ed è un “terremoto”: basta un non nulla per distrarlo. Il suo comportamento iperattivo e deconcentrato che manifestava da anni è oggi un problema concreto, ai limiti dell’handicap. Il suo comportamento è pressoché ingestibile. In classe è sempre fuori posto, impulsivo, si atteggia a buffone della classe. Se non è impegnato in lotte e litigi coi compagni si barcamena socialmente come buffone della classe; è deriso, evitato e spesso, nonostante il suo comportamento clownesco, mostra disappunto e tristezza.
Davide sembra apprendere con notevole difficoltà nelle aree verbali, lettura in particolare; ha risultati migliori in matematica, ginnastica, arte e disegno.
Incontra enormi difficoltà nel completare autonomamente un compito; si dimentica spesso di quanto aveva programmato di fare anche se intendeva farlo. Quando inizia un progetto, gioco o incarico, quasi mai lo porta a termine.
Nonostante Davide sia appassionato di sport in cui vorrebbe eccellere ha difficoltà di coordinazione ed è impulsivo e distraibile, così da essere un giocatore poco desiderabile.
Le insegnanti e i genitori, preoccupati e frustrati dal fallimento delle tradizionali misure già messe in atto (richiamare, sgridare, stimolare il bambino), richiedono un intervento inerente al comportamento, apprendimento e umore di Davide.”
Questo caso ci da l’idea di cosa sia un “Bambino Iperattivo con Deficit dell’Attenzione” (ADHD), un vero e proprio disturbo neuropsichiatrico caratterizzato da:
Deficit di Attenzione e Iperattività/Impulsività
I problemi di condotta (il “bambino onnipotente”) rappresentano una delle più frequenti patologie con cui si confronta oggi il Pediatra di famiglia (V. Nuzzo 2001). Essi sono condizionati da complessi fattori psico-sociali ed antropologici che caratterizzano fortemente la condizione del bambino e della famiglia moderna.
É importante sottolineare che molti dei disturbi di condotta evidenti nei bambini si associano a “iperattività” cioè a un controllo inadeguato dell’attività motoria.
I motivi ambientali, però, non spiegano tutti i casi di disturbo di condotta con iperattività, dal momento che esiste un gruppo di soggetti che presentano un disturbo organico (cioè una vera e propria malattia) dei meccanismi di controllo dell’attenzione e che secondariamente porta ad un insufficiente controllo dell’attività motoria: il “Disturbo da Deficit di Attenzione” (ADD, Attention Deficit Disorder nella letteratura di lingua inglese, ADS, Aufmerksamkheitsdefizit Störung nella letteratura di lingua tedesca) e meglio conosciuto come “Disturbo di Attenzione con Iperattività” (ADHD nella letteratura anglosassone, DDAI, nella letteratura italiana).
La condizione clinica, quindi, che meglio permette di definire il problema non è l’iperattività, ma il Disturbo di Concentrazione (DC), meglio definito come “Disturbo dell’Attenzione” .
La proposta di una sindrome così ben definita si affaccia in Italia dopo la pubblicazione negli Stati Uniti – circa venti anni fa – del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM III, che definiva le caratteristiche cliniche di questo disordine. Le critiche iniziali, però, furono così marcate in Italia, come in altri Paesi, da impedire la diffusione della conoscenza organica dell’ADHD. Basti pensare che nel 1978 la casa editrice Feltrinelli pubblicava la traduzione italiana di un libro di Schrag e Divoky dall’eloquente titolo “Il mito del bambino iperattivo”. Ciò nonostante, il problema era così sentito che in questi ultimi vent’anni numerosi progressi scientifici sono stati fatti, soprattutto in America, sulla comprensione dell’ADHD.
Sebbene il problema sia stato ormai ben identificato e delineato nella letteratura internazionale e, quindi, diagnosticato e trattato da molti pediatri e neuropsichiatri, nel nostro paese esso è stato finora trattato in modo non sufficientemente demarcato (Levi e Penge 1996) dalla cosiddetta “Sindrome da iperattività”, termine generico che si riferisce ad una costellazione sintomatologica etio-patogeneticamente disomogenea, che contiene una serie svariata di disturbi organici o funzionali dei meccanismi di controllo dell’attività, alla cui base, spesso, esistono deviazioni dei meccanismi psico-emotivi, sconfinanti in veri e propri disturbi di personalità.
La conseguente caratterizzazione psico-patologica del problema ha fatto sì che esso restasse lontano non solo da una prospettiva diagnostica e terapeutica adeguata alla sua vera natura ma anche dall’interesse da parte del vasto pubblico di pediatri, insegnanti e genitori che avrebbe, invece, meritato di conoscere un problema di così grande portata sociale, per la sua elevata diffusione nella popolazione infantile.
A partire dagli anni quaranta, gli psichiatri hanno utilizzato molti nomi per definire i bambini caratterizzati da iperattività e da una disattenzione e impulsività fuori della norma. Questi soggetti sono stati considerati affetti da “Minima disfunzione cerebrale”, da “Sindrome infantile da lesione cerebrale”, da “Reazione ipercinetica dell’infanzia”, da “Sindrome da iperattività infantile” e, più recentemente, da “Disturbo dell’attenzione”. I frequenti cambiamenti nelle definizioni rispecchiano l’incertezza che hanno avuto i ricercatori sulle cause del disturbo e perfino su quali fossero esattamente i criteri diagnostici.
Da diversi anni, però, i ricercatori che si occupano di ADHD hanno iniziato a metterne in luce sintomi e cause e hanno trovato che il disturbo può avere una causa genetica. Attualmente, le teorie in proposito sono molto diverse da quelle che andavano per la maggiore anche solo pochi anni fa. I ricercatori stanno chiarendo che l’ADHD non è un disturbo dell’attenzione in sé – come si era a lungo ritenuto – ma nasce da un difetto evolutivo nei circuiti cerebrali che stanno alla base dell’inibizione e dell’autocontrollo. A sua volta, questa mancanza di autocontrollo pregiudica altre importanti funzioni cerebrali necessarie per il mantenimento dell’attenzione, tra cui la capacità di posticipare le gratificazioni immediate in vista di un successivo e maggiore vantaggio. Insomma, questi bambini sono quelli che preferiscono l’uovo oggi alla gallina domani!
I bambini affetti da ADHD, pertanto, non riescono a controllare le loro risposte all’ambiente. È come se in questo momento che state leggendo veniste bombardati da tanti altri eventi disturbanti, come la televisione accesa, i vostri figli che gridano fuori la stanza, il telefono che squilla e voi non riusciste ad annullare tutti questi stimoli per focalizzare la vostra attenzione solo su quello che state facendo e che vi interessa tanto. Se non aveste questa capacità di “filtrare” gli stimoli e “prestare attenzione” comincereste a sentirvi agitati perché vi rendereste conto di non riuscire nel vostro intento. Pensate se poi l’attenzione vi venisse richiesta per cose non tanto gradite, come studiare una pagina di storia medioevale, cosa fareste?
Ebbene, questa mancanza di controllo rende i bambini ADHD:
disattenti, iperattivi e impulsivi
I sintomi centrali dell’ADHD, quindi, sono essenzialmente caratterizzati da un marcato livello di disattenzione e una serie di comportamenti -secondari- che denotano iperattività e impulsività.
Nella loro realtà clinica questi sintomi si organizzano e si manifestano con una serie di aspetti complessi, nell’ambito dei quali non devono mai essere persi di vista.
Andranno quindi sempre distinti:
- Sintomi puri (“core symptoms”);
- Profili sintomatologici specifici (aggressività, disturbo socialità, immaturità, isolamento)
- Problemi comportamentali associati (di cui il più frequente è quello opposizionale, definito come “Oppositional Defiant Disorder”, ODD)
L’ADHD non è affatto un problema raro, anzi appare – nell’ambito dei problemi di condotta – uno dei principali problemi della dimensione infantile moderna, un vero e proprio problema medico-sociale dal momento che è:
- Uno dei maggiori problemi di salute in termini di costi sanitari;
- Una delle più frequenti diagnosi psichiatriche infantili extra-ospedaliere;
- Il più comune problema comportamentale infantile.
La prevalenza dell’ADHD varia molto, secondo gli strumenti utilizzati e le realtà socio- antropologiche in cui viene studiata. I soggetti colpiti comunque sono numerosissimi in tutto il mondo. Ovunque adeguatamente ricercato il disturbo in età scolastica mostra una prevalenza intorno al 4%.
L’ADHD è stato identificato dai ricercatori in tutte le nazioni e in tutte le culture studiate. Il disturbo è maggiormente rappresentato nel sesso maschile secondo un rapporto che va da 3 a 9 maschi ogni femmina, a seconda delle ricerche, forse perché i maschi, secondo Barkley, sono geneticamente più soggetti alle malattie del sistema nervoso.
Va rilevato che gli strumenti di screening utilizzati per un primo orientamento diagnostico (DSM-III-R e DSM-IV) sovrastimano il problema, perché lo confondono con il capitolo più ampio dei disturbi di condotta. Nella stima estrema, la prevalenza si ridurrebbe dal 18 al 3.9 %, dopo la valutazione con modelli diagnostici di secondo livello.
L’ADHD non è un problema marginale che si risolve con l’età. Contrariamente, infatti, a quanto si riteneva un tempo la condizione può persistere in età adulta.
La sua storia naturale, infatti, è caratterizzata da persistenza fino all’adolescenza in circa due terzi dei casi e fino all’età adulta in circa un terzo o la metà dei casi. E molti di quelli che non rientrano più nella descrizione clinica dell’ADHD hanno ancora significativi problemi di adattamento nel lavoro, a scuola o in altri contesti sociali.
L’ADHD, infatti, significativamente si associa a disturbi dell’adattamento sociale (personalità antisociale, alcoolismo, criminalità), basso livello accademico ed occupazionale, problemi psichiatrici, fino ad essere considerato uno dei migliori predittori, in età infantile, di cattivo adattamento psicosociale nell’età adulta. Anche se sembra che questo sia patrimonio più delle forme comorbide che delle forme semplici e delle forme con disturbi neuro-psicologici, e sia strettamente dipendete dal contesto evolutivo in cui cresce il bambino con ADHD, è la persistenza stessa dell’ADHD a rappresentare il fattore di peggior prognosi psicosociale, indicando che maggiormente perdurano gli effetti del disturbo più profondo è il loro influsso sullo sviluppo psico-emotivo.
Le forme comorbide sono più correlate ad una serie di profili sintomatologici negativi per quanto riguarda il rapporto con l’ambiente, con veri e propri profili psichiatrici e, quindi, hanno una peggiore prognosi.
Le correlazioni più frequenti sono con:
- Disturbi di Condotta (CD): aggressività, ansietà, psico-patologia materna, bassa auto-stima;
- Disturbo Opposizionale (ODD): deprivazione sociale, basso rendimento scolastico, bassa competenza sociale.
Tutto questo è dovuto, purtroppo, al fatto che i soggetti affetti da ADHD manifestano nel tempo dei sintomi secondari che si pensa siano il risultato dell’interazione tra le caratteristiche proprie del disturbo con l’ambiente scolastico, sociale, familiare in cui il bambino si trova inserito. Basti pensare che il 58% degli studenti affetti da ADHD ha subito almeno una bocciatura durante la propria carriera scolastica (Cantwell e Satterfield 1978), insuccessi che sono attribuiti al loro deficit cognitivo (Marzocchi et al. 1999), alla loro scarsa motivazione (Van De Meere 1998) o alla comorbilità con i disturbi dell’apprendimento scolastico che possono essere presenti nel 50% dei bambini ADHD (Lambert e Sandoval 1980).
Per quanto riguarda i problemi relazionali, i genitori, gli insegnanti e gli stessi coetanei concordano che i bambini con ADHD hanno anche problemi nelle relazioni interpersonali (Pelham e Millich 1984). Vari studi di tipo sociometrico hanno confermato che bambini affetti da deficit di attenzione con o senza iperattività:
- ricevono minori apprezzamenti e maggiori rifiuti dai loro compagni di scuola o di gioco (Carlson et al, 1987);
- pronunciano un numero di frasi negative nei confronti dei loro compagni dieci volte superiori rispetto agli altri;
- presentano un comportamento aggressivo tre volte superiore (Pelham e Bender, 1982);
- non rispettano o non riescono a rispettare le regole di comportamento in gruppo e nel gioco;
- laddove il bambino con ADHD assume un ruolo attivo riesce ad essere collaborante, cooperativo e volto al mantenimento delle relazioni di amicizia;
- laddove, invece, il loro ruolo diventa passivo e non ben definito, essi diventano più contestatori e incapaci di comunicare proficuamente con i coetanei.
Gli inevitabili fallimenti che il bambino ADHD accumulerà nella sua esperienza di vita – sociali, scolastici e familiari – favoriranno, inevitabilmente, lo sviluppo di tratti oppositivi e provocatori che rappresenteranno un aspetto molto problematico dell’ADHD, dal momento che questi tratti saranno i predittori di prognosi infauste: i ragazzi, infatti, che manifestano comportamento da deficit di attenzione/ iperattività e aggressività, saranno più a rischio di altri nello sviluppare comportamenti devianti, nell’incorrere in problemi con la giustizia o nell’uso di alcool e/o sostanze stupefacenti (Taylor et al 1996).
Per poter aiutare i bambini (e gli adulti) colpiti da ADHD, gli psichiatri e gli psicologi devono capire meglio le cause del disturbo. Negli ultimi dieci anni, alcuni studi fondati sulle moderne tecniche di elaborazione di immagini hanno indicato quali potrebbero essere le regioni cerebrali il cui cattivo funzionamento spiegherebbe i sintomi dell’ADHD. Stando a questi lavori, sembrerebbero coinvolti la corteccia pre-frontale, parte del cervelletto e almeno due gangli della base, ammassi di cellule nervose situati nelle profondità del cervello.
In uno studio del 1996, Castellanos e Rapoport e i loro colleghi del National Institute of Mental Health, hanno scoperto che la corteccia pre-frontale destra e due gangli basali, il nucleo caudato e il globo pallido, sono significativamente meno estesi del normale nei bambini affetti da ADHD.
Agli inizi del 1998, il gruppo di Castellanos ha trovato che in questi bambini anche il verme del cervelletto è di dimensioni inferiori alla norma.
Le informazioni fornite dalle immagini sono significative perché le aree cerebrali di dimensioni ridotte nei soggetti affetti da ADHD sono proprio quelle che regolano l’attenzione. La corteccia pre-frontale destra, per esempio, è coinvolta nella programmazione del comportamento, nella resistenza alle distrazioni e nello sviluppo della consapevolezza di sé e del tempo. Il nucleo caudato e il globo pallido agiscono interrompendo le risposte automatiche per consentire una decisione più accurata da parte della corteccia e per coordinare gli impulsi che attraverso i neuroni raggiungono le diverse regioni della corteccia. L’esatto ruolo del verme del cervelletto non è stato ancora chiarito, ma indagini recenti fanno ritenere che abbia a che fare con l’essere più o meno motivati.
Da che cosa deriva la ridotta dimensione di queste strutture cerebrali nei soggetti affetti da ADHD? Molti studi sembrano avvalorare l’ipotesi che il fenomeno possa essere dovuto a una disfunzione di alcuni dei numerosi geni che normalmente sono attivi durante la formazione e lo sviluppo della corteccia pre-frontale e dei gangli basali. La maggior parte dei ricercatori attualmente pensa che l’ADHD sia un disturbo poligenico, ossia determinato dal concorso di più geni.
Le prime indicazioni sull’origine genetica dell’ADHD sono venute da ricerche condotte sulle famiglie dei bambini affetti dal disturbo. Per esempio, si è osservato che i fratelli e le sorelle di bambini con ADHD hanno una probabilità di sviluppare la sindrome da 5 a 7 volte superiore a quella dei bambini appartenenti a famiglie non colpite. E i figli di un genitore affetto da ADHD hanno fino a cinquanta probabilità su cento di sperimentare le stesse difficoltà.
La prova più conclusiva del contributo genetico all’ADHD, però, viene dallo studio sui gemelli. Nel 1992, Jacquelyn I. Gillis, allora all’Università del Colorado, e suoi colleghi scoprirono che il rischio di ADHD in un gemello monozigote di un bambino affetto dal disturbo è tra 11 e 18 volte superiore a quello di un fratello non gemello di un bambino con ADHD; si valuta che tra il 55 e il 92% di gemelli monozigoti di bambini affetti da ADHD finisca con sviluppare la sindrome.
Uno dei più ampi studi sull’ADHD relativo a gemelli fu condotto da Helene Gjone e Jan M. Sundet dell’Università di Oslo, insieme con Jim Stevenson dell’Università di Southampton in Inghilterra. Coinvolgeva 526 gemelli monozigoti, che ereditano esattamente gli stessi geni, e 389 gemelli eterozigoti, la cui somiglianza genetica è analoga a quella di fratelli nati a distanza di anni. Il gruppo di ricerca scoprì che l’ADHD è ereditario quasi all’80%, cioè che circa l’80% delle differenze nell’attenzione, nell’iperattività e nell’impulsività tra persone affette da ADHD e persone sane può essere spiegato da fattori genetici.
I fattori non genetici che sono stati collegati all’ADHD includono la nascita prematura, l’uso di alcool e tabacco da parte della madre, l’esposizione a elevate quantità di piombo nella prima infanzia e le lesioni cerebrali – soprattutto quelle che coinvolgono la corteccia pre-frontale. Presi insieme, tuttavia, questi fattori possono spiegare dal 20 al 30% dei casi di ADHD tra i maschi, e ancora di meno tra le femmine. Contrariamente alla convinzione popolare, non si è travata alcuna significativa correlazione tra ADHD e metodi educativi o fattori dietetici, come la quantità di zucchero consumata dai bambini.
Nel 1975 Feingold avanzò l’ipotesi e dimostrò, poi, conducendo alcune ricerche di discutibile rigorosità metodologica, che l’iperattività fosse una reazione di tipo tossica e/o allergica ai coloranti e ai conservanti contenuti in numerosi cibi di cui i bambini, durante gli anni della scuola, fanno largo uso e che l’esclusione dalla loro dieta migliorava sensibilmente il loro comportamento. In realtà, i suoi risultati non sono stati confermati e una seria dieta sembra realisticamente difficile da realizzare. Inoltre, poiché molti bambini con allergie non presentano ADHD e molti bambini con ADHD non hanno allergie è necessario essere molto cauti nel trarre facili conclusioni. Potrebbe esistere un sottotipo di soggetti iperattivi che presentano intolleranze alimentari e/o allergie a causa di un irregolare funzionamento del SNC che determina anche una scarsa regolazione del livello di attenzione (Marshall 1989).
L’ambiente non ha importanza decisiva nella genesi del disturbo di concentrazione, come per altri disturbi di condotta a base emotivo-educazionale, tuttavia l’esperienza esistenziale del bambino con Disturbo di Concentrazione, caratterizzato da “insuccessi” e frustrazioni nel campo relazionale, sociale e scolastico, potrà determinare disturbi comportamentali secondari su base psico-emotiva, che spesso accentuano e confondono gli stessi sintomi di iperattività e impulsività con cui il disturbo si presenta. In questo senso, la patogenesi dell’intero sistema di sintomi dell’ADHD si può considerare effetto della confluenza di fattori neuro-biologici e psicosociali, mediata da un disturbo dello sviluppo cognitivo-emotivo che assume un ruolo centrale.
La dopamina è secreta dai neuroni in particolari zone del cervello per inibire o modulare l’attività di altri neuroni, in particolare di quelli coinvolti nell’emozione e nel movimento. I disturbi del movimento nel morbo di Parkinson, per esempio, sono provocati dalla morte di neuroni produttori di dopamina in una formazione del cervello, la substantia nigra, che si trova al di sotto dei gangli basali.
Alcuni studi molto convincenti mettono in particolare evidenza il ruolo svolto dai geni che impartiscono le istruzioni per la produzione dei recettori e dei trasmettitori della dopamina: questi geni sono molto attivi nella corteccia pre-frontale e nei gangli basali. I recettori della dopamina si trovano sulla superficie di alcuni neuroni. La dopamina trasporta il suo messaggio a questi neuroni legandosi ai recettori. I trasportatori di dopamina si protendono dai neuroni che secernono il neurotrasmettitore e recuperano la dopamina inutilizzata in modo che possa essere usata di nuovo. Mutazioni nel gene per il recettore della dopamina possono rendere i recettori meno sensibili alla dopamina. Al contrario, mutazioni nel gene per il trasportatore della dopamina possono rendere eccessivamente attivi i trasportatori facendo in modo che essi eliminino la dopamina secreta prima che essa abbia la possibilità di legarsi agli specifici recettori situati su un neurone adiacente.
Nel 1995, Edwin H. Cook e i suoi colleghi dell’Università di Chicago resero noto che i bambini affetti da ADHD avevano una maggiore probabilità di presentare una particolare variante del gene (SLC6A3) per il trasportatore (carrier responsabile del trasporto transneuronale e del reuptake) della dopamina DAT1. Analogamente, nel 1996, Gerald J. LaHoste dell’Università della California e Irvine e i suoi collaboratori osservarono che nei bambini affetti da ADHD era particolarmente abbondante una variante del gene per i recettori di dopamina D2 e D4, il cui polimorfismo giustificherebbe le varianti cliniche dell’ADHD.
Non sussistendo una sufficiente concentrazione di neurotrasmettitori che garantisca un adeguato trasporto del segnale nervoso, si verifica essenzialmente un’alterazione della funzione di blocco della reazione agli impulsi sensoriali e di selezione di questi in vista della scelta di adeguati handlings. La conseguenza è che il bambino con Disturbo di Concentrazione non sarà in grado di reagire agli stimoli ambientali attraverso un’adeguata scelta e graduazione del repertorio motorio e comportamentale.
In definitiva, si potrebbe affermare che i difetti genetici e di struttura cerebrale osservati nei bambini affetti da ADHD portano ai comportamenti caratteristici del disturbo dell’attenzione associato a iperattività riducendo la capacità di inibire comportamenti inadeguati e di autocontrollo, il che – a giudizio di Barkley – è il deficit centrale nell’ADHD.
L’autocontrollo – ossia la capacità di inibire o di posporre le immediate risposte motorie (e forse emotive) a un evento – è fondamentale per l’esecuzione di qualsiasi compito. Crescendo, la maggior parte dei bambini matura la capacità di impegnarsi in attività mentali, le funzioni esecutive, che li aiutano a vincere le distrazioni, a ricordare gli obiettivi e a compiere i passi necessari per raggiungerli. Per conseguire un obiettivo nel lavoro o nel gioco per esempio, bisogna essere in grado di ricordare lo scopo (retrospezione), di chiarirsi ciò che serve per raggiungere quell’obiettivo (previsione), di tenere a freno le emozioni e di motivarsi. Se una persona non riesce ad evitare l’interferenza di pensieri e impulsi, nessuna di queste funzioni può essere portata a termine con successo.
Nei primi anni, le funzioni esecutive sono svolte in modo esterno: avviene che i bambini parlino tra sé ad alta voce richiamando alla mente un compito o interrogandosi su un problema. Via via che maturano, i bambini imparano a interiorizzare, a rendere private, le funzioni esecutive, impedendo ad altri di conoscere i loro pensieri.
I soggetti con ADHD, invece, appaiono privi del “freno” necessario per inibire l’esecuzione davanti a tutti delle “funzioni esecutive”.