COMORBILITÀ E DIAGNOSI DIFFERENZIALE DEL DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE E IPERATTIVITA’:
IMPLICAZIONI CLINICHE E TERAPEUTICHE

a cura di Gabriele Masi
IRCCS Stella Maris – Istituto di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza
Calambrone (Pisa)
disegni di Simone Deflorian


Esiste una chiara evidenza sul fatto che almeno il 70% dei soggetti con disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività ha un disturbo associato, sia in campioni clinici che epidemiologici.

Un attento procedimento diagnostico appare quindi cruciale anche in soggetti con un chiaro disturbo ADHD, poiché la definizione dei disturbi psico-comportamentali in comorbilità condiziona non soltanto l’espressività del quadro clinico, ma anche la prognosi e le strategie di trattamento. Appare infatti sempre più evidente che l’ADHD è probabilmente un’entità non omogenea e che possono essere individuati specifici sottotipi con diverso quadro clinico, diverso rischio genetico e diversi percorsi evolutivi.

Le diverse forme in comorbilità individuano dei sottogruppi più omogenei di pazienti che da un punto di vista clinico hanno fenomenologia e gravità diverse, da un punto di vista prognostico sono a diverso rischio di sviluppare più gravi psicopatologie e che probabilmente, da un punto di vista terapeutico, rispondono in maniera parzialmente diversa ai trattamenti e quindi richiedono specifiche strategie di intervento.

Lo studio della comorbilità può rappresentare inoltre un utile complemento nella comprensione della storia naturale dell’ADHD dal bambino all’adulto, poiché la tipologia dei disturbi in associazione è probabilmente diversa nelle diverse fasi della vita.
Un altro aspetto sottolinea l’importanza della diagnosi dei disturbi in comorbilità nell’ADHD. Gli stessi sintomi cardine (es. iperattività, impulsività, disturbo dell’attenzione), ad un diverso grado di intensità, possono essere parte integrante del quadro clinico dell’ADHD oppure possono essere presenti in quadri clinici che si associano all’ADHD, definendo quindi le diverse comorbilità, oppure ancora essere presenti in disturbi che simulano l’ADHD, entrando quindi in diagnosi differenziale con esso. Ad es. un disturbo del comportamento può essere parte integrante del quadro ADHD oppure può essere un disturbo autonomo (ad es. un disturbo oppositivo-provocatorio o un disturbo della condotta) ma associato in comorbilità all’ADHD; oppure ancora può essere un disturbo autonomo (ancora disturbo oppositivo-provocatorio o disturbo della condotta) ed entrare in diagnosi differenziale con l’ADHD con la quale potrebbe essere confusa.

Anche se da un punto di vista teorico i confini tra queste tre possibilità sono ben tracciabili, nella realtà clinica non sempre questo processo è agevole. Ancora più complesso è il processo diagnostico (comorbilità o diagnosi differenziale?) nel caso dei disturbi affettivi, quali i disturbi dell’umore (depressione o disturbo bipolare) o d’ansia.
La situazione è resa più complessa dal fatto che gli stessi disturbi che più frequentemente si associano all’ADHD sono anche quelli che più frequentemente entrano in diagnosi differenziale con esso. Tutto questo ha una conseguenza immediata, poiché spiega gran parte della sottodiagnosi dell’ADHD, in quanto i disturbi in comorbilità o in diagnosi differenziale esercitano un’azione di mascheramento sull’ADHD, per cui i bambini con ADHD, quando non considerati semplicemente “vivaci” o con un disturbo reattivo a fattori ambientali (familiari o sociali), vengono diagnosticati esclusivamente sulla base del disturbo in associazione (depressione, ansia, comportamento, apprendimento, personalità, ecc.). Un’ attenta diagnosi che metta in evidenza tutte le diverse componenti del quadro clinico può consentire di svelare questo rischio.

Questi aspetti sono almeno in parte il riflesso della incertezza dei confini della sindrome ADHD, cioè del suo “fenotipo“, per cui è ancora legittimo chiedersi che cos’è da considerarsi parte integrante dell’ADHD e cosa no. Se infatti i caratteri nucleari dell’ADHD (disturbo dell’attenzione, iperattività, impulsività) sono sufficientemente definiti, altri aspetti come il disturbo del controllo del comportamento, la difficoltà della relazione con gli altri, la disregolazione del tono dell’umore, la labilità del controllo emotivo, la compromissione del funzionamento scolastico fino a che punto fanno parte del quadro clinico (es. sotto forma di aggressività, demoralizzazione e/o eccitazione, stato di tensione soggettiva, difficoltà nel rendimento scolastico) e da quale punto in poi sono condizioni associate in comorbilità o addirittura condizioni che simulano un ADHD (ad es. un disturbo oppositivo-provocatorio o un disturbo della condotta, un disturbo depressivo o un disturbo maniacale, un disturbo d’ansia, un disturbo dell’apprendimento)?

Possono a questo proposito essere prospettate diverse possibilità nel rapporto tra ADHD e disturbi associati, che non necessariamente si escludono l’una con l’altra:

  1. tali quadri clinici non rappresentano condizioni associate, ma diverse espressioni dello stesso disturbo ADHD, dovute a variabilità del fenotipo;
  2. esistono diversi sottotipi (es. varianti genetiche) nella eterogenea sindrome di ADHD, che giustificano la multiformità della espressione clinica;
  3. i sintomi che vediamo sono riferibili a disturbi diversi ed indipendenti (es. ADHD, disturbo della condotta, disturbo depressivo), tra loro in comorbilità;
  4. i disturbi sono tra loro diversi ed indipendenti, ma la loro frequente associazione è legata alla presenza di una vulnerabilità comune, ad. es. genetica e/o ambientale;
  5. l’ADHD rappresenta una precoce manifestazione del disturbo associato che può comparire successivamente (es. disturbo bipolare);
  6. l’ADHD rappresenta una condizione di rischio in grado di aumentare il rischio di comparsa di altri disturbi in fasi successive.

Nelle prime due condizioni saremmo di fronte ad una falsa comorbilità, e l’errore sarebbe legato ai confini indistinti della sindrome ADHD. La terza e la quarta possibilità indicano una vera comorbilità, che si riferisce a disturbi indipendenti. La quinta e la sesta possibilità indicano possibili rapporti evolutivi tra l’ADHD e condizioni associate che giustificherebbero l’elevata frequenza di questa associazione.

Al di là di queste considerazioni, che rappresentano altrettanti possibili obiettivi aperti della ricerca, lo studio della comorbilità ci consente di individuare dei raggruppamenti più omogenei di soggetti, allo scopo di precisare meglio le nostre prognosi ed i nostri interventi. Ad es. il fatto di avere soggetti con ADHD associato a disturbi internalizzati (es. ansia oppure disturbi dell’umore), oppure ADHD associato a disturbi esternalizzati (es. disturbo della condotta), oppure ancora associato ad entrambi (es. ADHD + ansia + disturbo della condotta) ci consente di individuare tre diversi possibili percorsi evolutivi e risposte ai diversi trattamenti.

I sintomi cardine dell’ADHD – iperattività, inattenzione, impulsività – possono essere considerati come delle dimensioni in un continuum tra normalità e patologia, per cui è necessario individuare una soglia di rilevanza clinica ed anche una soglia di allarme subclinico, che pur non individuando una sindrome conclamata, tuttavia si associa ad una compromissione funzionale, ad esempio sul piano del funzionamento scolastico o sociale.

La difficoltà di individuare una chiara soglia tra normalità e patologia è stata considerata come un elemento per sostenere l’inconsistenza dell’ADHD come entità clinica definita. In realtà tale elemento accomuna l’ADHD (e la maggior parte dei disturbi psichiatrici) a molte malattie internistiche nelle quali la soglia tra normalità e patologia è stata sottoposta a frequenti revisioni. Ad es. può essere discusso il chiaro confine tra la glicemia normale e patologica, oppure tra la pressione arteriosa normale e patologica, oppure ancora tra la colesterolemia normale e patologica. Nei soggetti che sono in prossimità della linea di confine può essere discussa la migliore strategia di trattamento (es. farmaci o dieta?), o anche l’opportunità di una strategia attendista. Ma nei soggetti che superano ampiamente tale soglia una strategia di attesa è assolutamente contraria agli interessi dei soggetti.

Una considerazione analoga vale per i soggetti con ADHD, per cui in alcuni di essi può essere difficile discriminare tra eccessiva vivacità ed una lieve forma di ADHD, ma la maggior parte dei soggetti che vengono riferiti ai clinici presentano una sintomatologia ben superiore alla soglia, che non consente una strategia di attesa.
Nelle forme che sono vicine alla soglia, sono stati spesso utilizzati dei termini che definiscono un temperamento particolarmente attivo (es. temperamento difficile, temperamento ipertimico, temperamento disinibito, temperamento volto alla ricerca delle novità). Tali temperamenti sono normali e non disadattivi, anche se possono aumentare la vulnerabilità a disturbi esternalizzati del comportamento.

Un vero disturbo psicopatologico come l’ADHD si differenzia da essi per la sua precocità, per la sua pervasività nei diversi ambienti, indipendentemente dalle loro caratteristiche, per la scarsa capacità di finalizzare l’iperattivismo in attività costruttive, ma soprattutto per la marcata interferenza sul funzionamento scolastico, familiare, sociale, nel tempo libero, ecc.

Esistono condizioni ambientali particolarmente sfavorevoli che possono associarsi ad una sintomatologia tipo ADHD, quali ad es. contesti sociali degradati, con modelli impulsivi, oppure situazioni familiari caotiche, con incoerenza dei modelli di riferimento, oppure condizioni educative incongrue (ad es. ipostimolazione), oppure inadeguatezza della organizzazione scolastica (es. eccessiva rigidità), oppure condizioni psicopatologiche familiari (es. depressione materna), o problemi familiari situazionali (es. divorzi traumatici). In questi casi frequentemente si osserva una interazione tra eventi vitali negativi e condizioni di vulnerabilità costituzionale (es. un deficit nei processi di controllo inibitorio) che aumentano la loro sensibilità all’azione di tali eventi esterni.

Esistono infine condizioni patologiche generali che possono più facilmente associarsi a sintomi tipo ADHD. Tra queste disturbi neuroevolutivi, quali disturbi sensoriali (visivi, uditivi), disturbi dello sviluppo linguistico, disturbi specifici dell’apprendimento, ritardo mentale o livello intellettivo “borderline”. Anche condizioni quali alcune forme di epilessia (es. piccolo male), traumi cranici, disturbi tiroidei, affezioni dermatologiche, disturbi del sonno, nascita pretermine, ed anche alcuni farmaci (antiepilettici, benzodiazepine, anti-istaminici) possono associarsi a sintomi tipo ADHD.

I  disturbi del comportamento che possono associarsi all’ADHD sono il disturbo oppositivo-provocatorio (DOP) ed il  disturbo della condotta  (DC).
Il primo è caratterizzato da comportamento di sfida, ostile e negativista, il secondo, più grave, da aggressività, distruttività, furti, menzogna e sistematica violazione delle regole sociali.

L’associazione tra ADHD e DOP è molto elevata, fino al 50-60% secondo alcuni studi sia clinici che epidemiologici, mentre una percentuale intorno al 30% presenterebbe un DC associato. Questi elevati tassi di frequenza possono far sorgere il sospetto che la distinzione tra le sindromi è troppo fragile, per cui si tratta di due nomi diversi per uno stesso disturbo, oppure che la comorbilità è falsa, nel senso che una parte di questi soggetti hanno in realtà solo un ADHD, magari particolarmente grave, o, più probabilmente, influenzato da elementi contestuali negativi (es. condizioni socio-ambientali più degradate).

Perché si possa parlare di disturbi indipendenti è necessario che essi presentino eziologie diverse, diversi antecedenti, diversi sintomi, diverse risposte ai trattamenti, diversa evoluzione. In effetti spesso è possibile individuare differenze in tal senso. Ad es. la familiarità con disturbo della condotta ed antisociale è evidenziabile solo nei bambini che hanno ADHD associato a DC, ma non nei bambini ADHD puri. Alcuni studi dimostrano differenze tra ADHD e ADHD+DC per quanto riguarda eventi vitali antecedenti (maggiore frequenza di trascuratezza o di separazioni precoci nei soggetti con DC), per quanto riguarda il quadro clinico (maggiori sintomi cognitivi, maggiori ritardi di sviluppo, Quoziente Intellettivo più basso nei soggetti ADHD), per quanto riguarda la risposta ai trattamenti (maggiore efficacia degli stimolanti nell’ADHD), ed infine per quanto riguarda la prognosi (migliore evoluzione nell’ADHD).

Quando la comorbilità tra ADHD e DC è vera, probabilmente essa individua un sottogruppo distinto di soggetti caratterizzato da una prognosi specifica. Quello che appare evidente in molti studi epidemiologici è che la precocità dell’associazione ADHD-DC rappresenta un fattore di forte rischio evolutivo e richiede quindi interventi terapeutici tempestivi, per evitare l’evoluzione verso un disturbo antisociale a varia espressività. Studi in follow-up tendono a confermare come ADHD e DOP-DC possano essere considerate condizioni cliniche almeno parzialmente distinte e che il rischio di evoluzione verso un disturbo antisociale sia legato a questa comorbilità piuttosto che all’ADHD di per sé. Bambini con ADHD+DC hanno un DC generalmente più precoce, più grave e duraturo, che fa seguito ad un iniziale ADHD. Se è vero che circa 1/3 dei bambini o adolescenti con DC evolvono verso un disturbo antisociale della personalità, appare probabile che i soggetti con comorbilità ADHD-DC possano rappresentare un sottogruppo a più alto rischio sul piano prognostico, in particolare se l’ADHD permane in adolescenza. Il rischio di disturbo antisociale è molto inferiore, se non assente, nei bambini con ADHD senza DC. Ad es. il DC, ma non il DOP, è un predittore di una negativa evoluzione, quale l’associazione con una dipendenza da sostanze; la prognosi sarebbe negativa solo in quella parte minoritaria di DOP che evolvono verso il DC. Se infatti è vero che il DC è generalmente preceduto da un DOP, il DOP di per sé è solo un debole predittore di DC.

Una migliore comprensione della situazione clinica potrà derivare da un confronto tra soggetti con ADHD puro, con DC puro, e soggetti con associazione dei due disturbi.
Quello che non è ancora chiara è la natura delle determinanti che condizionano questo percorso evolutivo. Si può ritenere che l’evoluzione dell’ADHD verso un disturbo disadattivo sociale (disturbo antisociale, tossicodipendenza, ecc.) sia fortemente influenzata da fattori sociali oltre che biologici. Essendo la gran parte dei dati della letteratura provenienti da casistiche nordamericane, è probabile che la peculiare condizione psicosociale negli ambienti urbani USA condizioni la prognosi e che quindi alcune percentuali certamente allarmanti siano solo parzialmente esportabili al contesto italiano.

La definizione della comorbilità tra ADHD e disturbo del comportamento, oltre ad avere implicazioni prognostiche ha anche implicazioni terapeutiche. Il cosiddetto studio MTA, condotto dal National Institute of Health americano, che ha messo a confronto i trattamenti farmacologici e non farmacologici, da soli o in associazione, in bambini con ADHD, ha dimostrato che, a differenza dei soggetti con comorbilità ansiosa (vedi dopo), nei soggetti con comorbilità con DOP o DC l’intervento farmacologico appariva significativamente più efficace dell’intervento non farmacologico. Comunque il ruolo di mediatore prognostico rappresentato dalle condizioni psicosociali implica che esse debbano essere il primo obiettivo di un intervento di prevenzione verso l’evoluzione disadattiva.

Interventi individuali, familiari, scolastici, sociali devono rappresentare l’irrinunciabile tessuto di fondo per questi bambini, e la loro precocità condiziona pesantemente la loro efficacia. Gli stimolanti e in particolare il metilfenidato generalmente migliorano il quadro clinico, talora anche in soggetti con DC senza ADHD. In alcuni casi peraltro si può osservare un peggioramento, in termini di irritabilità e discontrollo degli impulsi, anche quando i sintomi dell’ADHD registrano un buon miglioramento. In questi casi una strategia possibile è quella di sostituire o associare allo stimolante la clonidina, agonista alfa-2 adrenergico dotato di una buona azione di controllo sugli impulsi. La clonidina non sembra in grado di migliorare di per sé l’attenzione, ma presenta una discreta efficacia sui sintomi comportamentali dell’ADHD ed ha una sua specifica indicazione nelle condizioni nelle quali l’uso degli stimolanti è più problematico (ad es. in presenza di Sindrome di Tourette), oppure quando un dosaggio elevato di stimolante è gravato da eccessivi effetti collaterali. L’associazione tra lo stimolante e la clonidina è possibile e spesso efficace, anche se non esistono dati definitivi sulla sua sicurezza. Comunque il rispetto di norme adeguate di gestione, quali la particolare gradualità della titolazione, la sua frammentazione in tre o quattro somministrazioni giornaliere, e il non superamento di 0.300 mg/die consente una sufficiente sicurezza.
Qualora né lo stimolante né la clonidina, da soli o in associazione, funzionino, può essere associato un trattamento specifico per il disturbo della condotta, parallelo a quello per l’ADHD. In questo caso il litio, il valproato e la carbamazepina appaiono preferibili agli antipsicotici atipici per il migliore spettro di effetti collaterali. Questo appare particolarmente vero per quelle forme che sono state definite come condotta disforica, nei quali il disturbo della condotta si associa ad una disregolazione del tono dell’umore senza che questo configuri un disturbo bipolare o ciclotimico.

Disturbi depressivi e maniacali possono associarsi all’ADHD, oscillando tra condizioni sottosoglia e acuti aggravamenti. Il fatto che in età evolutiva tali disturbi possono avere un andamento cronico e non episodico rende la diagnosi più complessa. Inoltre in età evolutiva una percentuale tra 1/4 e 1/5 dei bambini depressi presenta un episodio maniacale, soprattutto in presenza di familiarità bipolare o sintomi psicotici.

ADHD e disturbi dell’umore coesisterebbero in una percentuale variabile dal 15 al 75% dei casi a seconda delle diverse casistiche. L’enorme scarto nelle stime epidemiologiche sottolinea la discordanza tra i ricercatori nell’interpretare manifestazioni depressive come una demoralizzazione implicita al disturbo oppure come un disturbo depressivo associato. La frequenza di depressione nei bambini ADHD e nei loro parenti di primo grado è maggiore rispetto alla popolazione generale sia in campioni clinici che epidemiologici; inoltre i figli di soggetti con disturbo depressivo hanno una più elevata incidenza di ADHD. I soggetti con ADHD associato a disturbi depressivi (e/o ansiosi) hanno una insorgenza più tardiva, una minore compromissione cognitiva e minori segni di disfunzione neurologica minore; tali dati avrebbero fatto pensare ad un sottogruppo con distinta eziologia.

E’ comunque ancora discusso se la comorbilità con i disturbi dell’umore sia un artefatto. Ad es. alcuni studi in follow-up non avrebbero riscontrato che un disturbo depressivo maggiore sia più frequente in adolescenti e adulti con pregressa diagnosi di ADHD rispetto a controlli normali. E’ quindi possibile che la diagnosi di depressione che si ottiene nei bambini con ADHD si riferisca a forme più lievi e croniche, del tipo distimia lieve, che appaiono ai confini con la demoralizzazione che è talvolta parte integrante dell’ADHD e che non evolve in un disturbo depressivo maggiore dell’adulto. Al contrario altri studi prospettici hanno invece riscontrato una continuità nel tempo della diagnosi di depressione, tanto che i soggetti con comorbilità depressiva sarebbero quelli a più alto rischio successivo di necessità di ospedalizzazioni.

L’efficacia degli stimolanti nella comorbilità ADHD-depressione e/o ansia è stata riportata inferiore, anche se dati più recenti non confermano questa specificità. I triciclici sarebbero ugualmente efficaci sia sui sintomi ADHD che sui sintomi depressivi, ma gli effetti collaterali e la potenziale cardiotossicità ne limitano la utilizzazione in età evolutiva. In epoca più frequente sono stati usati nuovi farmaci antidepressivi, nella speranza di ottenere una risposta sia nella sintomatologia ADHD che in quella depressiva, senza gli effetti collaterali e soprattutti i rischi dei triciclici. Sembra che gli antidepressivi ad azione selettiva sulla serotonina (SSRI) non abbiano alcuna efficacia nei bambini ADHD e che quando un miglioramento si registra, ciò significa che abbiamo curato l’ansia e/o la depressione, ma non l’ADHD.

Tra gli antidepressivi non triciclici privi di azione sulla serotonina ricordiamo gli inibitori selettivi della ricaptazione della noradrenalina, quali la reboxetina (su cui non esistono però dati specifici), ed in particolare la atomoxetina, ancora non in commercio in Italia, sulla quale stanno convergendo dati promettenti, anche da studi controllati contro placebo.

Infine sono stati effettuati trials farmacologici con antidepressivi ad azione mista serotonegica e noradrenergica, ma diversi dai triciclici. Tra questi il farmaco sui quali si sono rivolte le attenzioni dei clinici è la venlafaxina che ad alte dosi ha una azione pro-noradrenergica. Sono disponibili infine alcuni dati sul bupropione, che agisce con un meccanismo specifico, potenziando la trasmissione noradrenergica e dopaminergica, ma trascurando la trasmissione serotonergica.

La comorbilità tra ADHD e il disturbo bipolare solleva delicati problemi di diagnosi differenziale, esistendo una parziale sovrapposizione tra il quadro clinico delle due manifestazioni. E’ spesso difficile differenziare un disturbo maniacale rispetto all’ADHD e/o DC e comprendere se si è in presenza di comorbilità o di diagnosi differenziale; cioè se in realtà i bambini con mania non sono altro se non ADHD con disregolazione affettiva o se al contrario i bambini con ADHD hanno in realtà una ipomania cronica.

Distraibilità, impulsività, iperattività, labilità attentiva accomunano sia l’ADHD che la mania. L’irritabilità e l’aggressività dei bambini con mania è generalmente più grave, con reazioni esplosive e violente, difficili da riconoscere se, come spesso accade, non è presente una chiara euforia. Esiste comunque una certa evidenza clinica che un disturbo bipolare sia più frequente nei bambini ADHD (intorno al 10%) che nella popolazione generale. In altri termini i bambini ADHD hanno un rischio maggior di sviluppare un disturbo bipolare e in questi casi il disturbo bipolare ha un esordio particolarmente precoce (intorno ai 7-8 anni).

La difficoltà diagnostica risiede soprattutto nel fatto che le manifestazioni maniacali nei bambini raramente sono caratterizzate da umore euforico. La disforia è più frequente dell’umore elevato e dell’euforia; spesso sono evidenti comportamento clownesco ed egocentrico. I sintomi più frequenti sono l’irritabilità, generalmente associata a ostilità aggressività, sia verbale che fisica, ed a “tempeste affettive” e crisi di rabbia. L’impulsività può esprimersi attraverso la ricerca di attività piacevoli, ma pericolose, mentre nell’ADHD è l’espressione di una globale perdita di inibizione. L’iperattività motoria è in genere più finalizzata di quella caotica, pervasiva e afinalistica dei soggetti con ADHD, può emergere rapidamente e determinare il rapido mutamento del grado di dell’attività. La grandiosità può esprimersi attraverso una identificazione con figure onnipotenti del cinema o dei fumetti o la convinzione di poter fare cose impossibili agli altri (smontare e rimontare una macchina, scrivere la sceneggiatura per un film, ecc.), oppure attraverso la convinzione di una propria superiorità nei confronti dei genitori, degli insegnanti o di altre figure di autorità o ancora attraverso l’intolleranza verso regole o limitazioni o con comportamenti oppositori o provocatori. Comportamenti anti-sociali, come la vittimizzazione dei coetanei, piccoli incendi e furti sono prevalentemente associati alla convinzione di essere al di sopra della legge. L’ipersessualità (seduttività, esibizionismo, linguaggio esplicitamente sessualizzato, masturbazione compulsiva) sono frequenti e pongono il delicato problema della diagnosi differenziale con un abuso sessuale cronico o acuto. Su una stabile condizione di eccitamento (aumento dell’energia, riduzione del sonno, logorrea, ideorrea) possono irrompere acutamente sentimenti e verbalizzazioni di natura depressiva, con autosvalutazione, pensieri di morte, idee pessimistiche sul significato della vita, ecc.

Il riconoscimento della comorbilità ADHD-disturbo bipolare è importante, perché essa individua un sottogruppo di soggetti con un andamento clinico e prognostico particolarmente negativo. Confrontati con gli altri bambini ADHD, quelli con comorbilità bipolare hanno più frequentemente depressione maggiore, disturbo della condotta o disturbo oppositivo-provocatorio, disturbi d’ansia e necessità di ospedalizzazione, oltre che una più grave compromissione del funzionamento sociale. L’esito verso una evoluzione in senso antisociale sarebbe più elevato in questi soggetti.

Inoltre un’associazione tra ADHD e disturbo dell’umore (in particolare bipolare) è presente significativamente nei soggetti che realizzano un suicidio, più ancora che in quelli che lo tentano. Se questi aspetti sono tipici del disturbo maniacale, la familiarità ADHD, le alterazioni cognitive e le difficoltà scolastiche sono più tipiche dell’ADHD.

Il trattamento in questi casi si basa sulla associazione degli stimolanti con gli stabilizzatori dell’umore, come litio o valproato o con antipsicotici atipici nelle forme maniacali resistenti. Si ritiene che sia buona norma nelle forme con associazione tra disturbo bipolare ed ADHD stabilizzare l’umore prima di introdurre farmaci psicostimolanti, poiché questi ultimi potrebbero determinare una accentuazione della eccitazione comportamentale, analogamente agli antidepressivi.

 

Circa il 25% dei bambini con ADHD presenta associati disturbi d’ansia. Tale frequenza è riferita maggiore nei soggetti con ADD senza iperattività, che rappresentano anche la popolazione che pone nei confronti dei disturbi d’ansia i problemi più spinosi di diagnosi differenziale. Infatti sintomi cognitivi (difficoltà di concentrazione), comportamentali (irritabilità, agitazione psicomotoria) ed affettivi (labilità emotiva, demoralizzazione, necessità di rassicurazioni) possono essere presenti sia in soggetti ADHD che in soggetti con disturbi d’ansia.

I bambini con comorbilità ansiosa sembrano essere meno impulsivi, hanno minore frequenza di DC, mentre sono più frequenti le difficoltà nella socializzazione, in particolare in adolescenza. In altri termini sembra che l’associazione con disturbi d’ansia eserciti una azione protettiva nei confronti di una possibile evoluzione dissociale. Questi dati, se confermati, indicherebbero che anche questo tipo di comorbilità individua una popolazione di soggetti con specifica storia naturale. Inoltre l’ADHD è più frequente in figli di genitori con disturbo d’ansia.

I disturbi d’ansia di più frequente riscontro sono il disturbo generalizzato d’ansia, le fobie semplici, il disturbo d’ansia di separazione, ma anche la fobia sociale ed il disturbo di panico.
Nello studio MTA è emerso che mentre nei soggetti senza comorbilità ansiosa il trattamento farmacologico o il trattamento combinato farmaci-terapia pedagogica e comportamentale erano chiaramente superiori al trattamento pedagogico-comportamentale da solo, nei bambini con comorbilità ansiosa la differenza tra trattamento comportamentale e trattamento farmacologico non era più significativa, mentre appariva chiaramente superiore il trattamento combinato. Questi dati indicano da un lato l’utilità di interventi non farmacologici, dall’altro il fatto che questi interventi, pur non centrati sui sintomi ansiosi ma piuttosto sui sintomi nucleari dell’ADHD, migliorano comunque la sintomatologia ansiosa. Quindi tale sintomatologia è almeno in parte secondaria all’esperienza stressante dell’avere sintomi ADHD e che un loro miglioramento può migliorare anche il quadro generale, compresa l’ansia. E’ ipotizzabile che interventi (psicoterapici e/o farmacologici) più direttamente centrati sulla sintomatologia ansiosa possano produrre miglioramenti ulteriori.

Comunque dai dati dello studio non emerge che i soggetti con ansia rispondano meno dei soggetti senza ansia al trattamento con stimolanti, contrariamente a quanto ipotizzato in precedenza. Probabilmente diversa è la situazione per i disturbi ansiosi di questi soggetti, poiché gli stimolanti possono peggiorare talora i sintomi d’ansia. In questi casi è necessario un intervento specifico sui disturbi d’ansia, che può avvenire o attraverso il ricorso a farmaci che agiscono sia sull’ansia che sull’ADHD oppure con una terapia per ciascuno dei due disturbi.

Farmaci antidepressivi ed antiansia ad azione noradrenergica, quali alcuni triciclici e venlafaxina, sono potenzialmente in grado di gestire sia i sintomi ADHD che i sintomi depressivo-ansiosi. Quando questi farmaci non consentono un adeguato controllo dei sintomi ansiosi appare opportuna una biterapia, con farmaci (stimolanti) per l’ADHD e farmaci per il disturbo d’ansia, in particolare i farmaci serotonergici ad azione selettiva (SSRI), che non hanno efficacia sui sintomi ADHD, ma che sono apparsi efficaci sui disturbi d’ansia anche in studi controllati.

ADHD,  disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e  malattia dei tic, in particolare la Sindrome di Tourette (ST), sono frequentemente associati, probabilmente anche per una parziale sovrapposizione dei substrati biologici, quali il circuito fronto-striato-talamo-corticale. Si ritiene che sintomi ADHD siano presente nel 20-30% dei DOC e nel 40% della ST. Tali dati suggeriscono che una possibile comorbilità con ADHD dovrebbe essere ricercata in ogni bambino con DOC e/o tic.

Tipicamente l’ADHD precede l’esordio dei tic e del DOC, spesso peggiora con il progredire dei tic, e contribuisce significativamente alla gravità del quadro clinico, in termini di disturbi comportamentali (impulsività comportamentale), difficoltà scolastiche ed alterazione delle prestazioni ai test di funzioni esecutive.

La natura della relazione tra ADHD, DOC e ST non è chiara, anche se queste sindromi condividono un’incapacità nel controllo inibitorio. I disturbi dell’attenzione sono in parte riferibili all’effetto distraente dei tic e delle ossessioni-compulsioni e al disperato tentativo da parte dei soggetti affetti di controllare tali manifestazioni, ma anche ad una disfunzione dei substrati neurali attentivi che sostengono anche i processi inibitori. Infatti le difficoltà attentive permangono nelle fasi di remissione dei tic, e spesso ostacolano significativamente attività scolastiche e quotidiane.

Esistono una serie di implicazioni terapeutiche in particolare nella comorbilità tra ADHD e tic. Infatti si ritiene che l’uso di psicostimolanti possa determinare la slatentizzazione di una vulnerabilità alla malattia dei tic, anche se questo dato non è del tutto confermato. Dati classici indicano che circa 1/3 dei bambini con tic ed ADHD devono sospendere il trattamento con stimolanti per il peggioramento dei tic. Alcune linee guida suggeriscono che il trattamento farmacologico di prima scelta dovrebbe essere in questa comorbilità rappresentano dalla clonidina, che può essere efficace su entrambi i disturbi. In realtà, l’efficacia della clonidina sia sui tic che sull’ADHD è tutt’altro che costante. Inoltre si osserva frequentemente una riduzione della efficacia del farmaco dopo 6-8 mesi dal suo inizio, che obbliga ad un aumento dei dosaggi o ad una associazione con altri farmaci (psicostimolanti per i sintomi ADHD, antipsicotici per la ST).
Nel caso di una comorbilità con DOC, quest’ultimo deve essere trattato in modo specifico, con farmaci serotonergici (SSRI o clomipramina).

Sintomi del tipo ADHD sono frequentemente descritti in bambini con ritardo mentale o patologie dello spettro dei disturbi pervasivi dello sviluppo, sia di tipo autistico che non autistico.  Si ritiene che la frequenza di disturbi dell’attenzione con iperattività sia 3-4 volte superiore in soggetti con ritardo mentale rispetto ai soggetti normodotati, anche se una diagnosi di ADHD non dovrebbe essere fatta in soggetti con ritardo mentale grave o profondo. In questi casi è spesso difficile riconoscere i disturbi comportamentali impliciti nel ritardo mentale da quelli legati ad una comorbilità ADHD. In generale il problema della comorbilità in questi soggetti è spesso trascurato, per un effetto generale di mascheramento diagnostico che il ritardo mentale esercita sulle manifestazioni psicopatologiche ad esso associate.

Ma accanto alla comorbilità anche in questi casi deve essere affrontato il problema della diagnosi differenziale, che è rilevante soprattutto in età prescolare, quando bambini con disturbi pervasivi dello sviluppo non autistici o bambini con ritardo mentale presentano una marcata disorganizzazione del comportamento, con iperattività, discontrollo del comportamento, instabilità affettiva, aggressività, che possono essere confusi con i sintomi dell’ADHD. La ripetitività e rigidità di questi sintomi è maggiore nei soggetti con disturbi pervasivi dello sviluppo e/o ritardo mentale, così come è maggiore la frequenza di disturbi della comunicazione, di ritiro sociale e di stereotipie motorie o linguistiche.

In genere con il passare degli anni la diagnosi differenziale diventa più chiara, ma la possibilità di una associazione tra questi disturbi può favorire un mascheramento diagnostico che impedisce il riconoscimento dell’ADHD associato.

Sintomi dell’ADHD possono infine essere riscontrati in bambini o adolescenti che pur in presenza di un livello intellettivo nella norma o solo lievemente deficitario presentano caratteristiche atipiche nella qualità delle relazioni interpersonali e nella regolazione delle emozioni. In contesti sociali questi bambini appaiono scarsamente in contatto con gli altri o mostrano scarsi segni di interesse emotivo oppure si sentono fortemente a disagio ed hanno gravi alterazioni nelle regole della interazione sociale. Talora essi reagiscono in modo catastrofico a frustrazioni anche non gravi con pianto o rabbia. Possono essere presenti manierismi, stereotipie, che si accentuano sotto stress. Il pensiero può essere atipico, con tendenza alla perseverazione su temi specifici, con ossessioni o fobie bizzarre, magari con interessi stereotipati, ma talora anche francamente disorganizzato. Tali bambini ed adolescenti vengono percepiti come bizzarri, strani, eccentrici. Essi non rientrano in categorie diagnostiche definite, anche se alcuni ricevono diagnosi di disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato, oppure di sindrome di Asperger oppure di disturbo della personalità schizoide o schizotipico.

Qualora si ritenga che esiste una vera comorbilità con ADHD, questi soggetti possono essere trattati con farmaci stimolanti, anche se è descritta una maggiore frequenza di reazioni indesiderate in questi soggetti, in particolare in quelli con patologia autistica. In questi casi la clonidina può rappresentare una possibile alternativa. Altri farmaci ad azione sulle manifestazioni affettive e comportamentali dei bambini autistici o con ritardo mentale sono gli stabilizzatori dell’umore, considerata la non trascurabile possibilità che si sia in presenza di un disturbo bipolare, deformato nella sua espressività dalla concomitanza dei disturbi generalizzati dello sviluppo. Nei casi con maggiore livello di disorganizzazione emotiva, comportamentale e del pensiero può invece essere utile il ricorso ad antipsicotici atipici, quali il risperidone o l’olanzapina, in alternativa o in associazione agli stimolanti.

Come detto inizialmente, la definizione delle comorbilità consente di individuare sottogruppi di ADHD più omogenei, dotati di peculiarità sul piano della diagnosi, della espressività clinica, della prognosi e del trattamento. Naturalmente un’accurata valutazione della comorbilità implica un adeguato assetto diagnostico, ad esempio con interviste strutturate, che non consentano all’ADHD di mascherare altre affezioni in associazione. Tale procedura potrà consentire maggiormente la definizione dei più importanti fattori di rischio, dei più significativi mediatori prognostici e soprattutto l’adozione di interventi farmacologici e non farmacologici sempre più tempestivi e mirati per le diverse componenti del quadro clinico. Infatti spesso delle guarigioni incomplete o delle apparenti resistenze al trattamento non sono altro che il frutto di una comorbilità non adeguatamente considerata.

Infine, un più corretto approccio alla comorbilità che ricerchi tutte le componenti cliniche che partecipano ad un disturbo emotivo e comportamentale complesso, ci potrà aiutare a chiarire quelle situazioni in cui i sintomi potrebbero essere attribuiti a situazioni cliniche diverse, in associazione ma anche in alternativa. Quindi comorbilità e diagnosi differenziale sono tra loro strettamente associate, poiché i disturbi in diagnosi differenziale sono anche quelli che possono associarsi all’ADHD in comorbilità.

La diagnosi di ADHD è una diagnosi clinica, che si effettua sulla base di una raccolta attenta di sintomi, se possibile da diverse fonti di informazione. Non esistono test diagnostici, prove di laboratorio e esami strumentali che consentano una diagnosi di certezza. Gli stessi test neuropsicologici, importanti per una caratterizzazione clinica della sindrome e per una impostazione del progetto terapeutico, non sono dirimenti per la diagnosi. Basarsi esclusivamente su dati clinici espone a rischi, poiché i sintomi dell’ADHD sono aspecifici e possono quindi essere riscontrati in diversi quadri clinici, ma anche in bambini normali o in situazioni ambientali sfavorevoli. La utilizzazione esclusiva di rating scales che valutano soltanto la sintomatologia nucleare dell’ADHD pongono quindi un elevato rischio di sovrastimare la reale prevalenza del disturbo.

Il problema della diagnosi differenziale appare quindi cruciale, ed implica una adeguata conoscenza non soltanto dell’ADHD, ma anche di tutte le condizioni cliniche con le quali esso può essere confuso, allo scopo di evitare strategie di gestione e provvedimenti terapeutici inutili o addirittura dannosi.